L’attore con i baffi

Tedjo Edizioni Inutili
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L’attore coi baffi, baffi folti e leggermente spioventi, stava in piedi di fronte al bancone della cucina, fissando il vasetto di yogurt greco con l’espressione di uno che sta affrontando un dilemma metafisico. La luce del frigorifero era ancora accesa e si rifletteva sul piano di marmo in modo strano, una specie di chiarore giallo-verde che faceva sembrare tutto vagamente nauseante. Come se fosse l’inizio di uno spot pubblicitario che va completamente fuori controllo.

I baffi, che si era lasciato crescere in un momento di ispirazione post-Pinteriana, iniziavano a prudere, e lui si grattava con una certa ansia. Aveva accettato quel ruolo — uno spettacolo semi-autobiografico su un insegnante di letteratura con un debole per l’alcolismo funzionale — pensando che lo avrebbe fatto sentire più autentico, e invece eccolo lì, alle 10 di mattina, ancora in vestaglia, a lottare contro un vasetto di yogurt greco. Il tipo d’ironia che la vita reale ti lancia in faccia quando meno te l’aspetti.

Il coperchio non si muoveva, nemmeno un millimetro. Tirava, strattonava, roteava il polso in modi che non avrebbero fatto male solo perché, ovviamente, era un attore abituato a esercizi di rilassamento muscolare, giusto? (Risposta breve: no, gli faceva male come l’inferno). Intanto, Arturo, il soriano rosso e ipertrofico che aveva preso dalla sua ex perché gli era sembrata una mossa romantica e ora si era trasformato in un essere apatico che si rifiutava di riconoscerlo come padrone, dormiva placidamente sul divano, adagiato sull’ultimo romanzo giallo di Walter Veltroni. Anche solo pensare a Veltroni come autore di gialli era abbastanza per scatenare una crisi di panico, ma non aveva tempo per quello.

L’attore coi baffi iniziava a sudare. Il vasetto sembrava resistere con una forza disumana, come se il contenuto fosse una qualche reliquia sacra, nascosta lì da un antico popolo che sapeva bene cosa stava facendo. Le sue dita, ormai scivolose, non riuscivano più ad afferrare bene il coperchio, che sembrava sempre più beffardo, come uno di quei puzzle maledetti che continuano a cambiarti sotto le mani. Alla fine, dopo minuti che sembravano dilatarsi in una specie di distorsione spazio-temporale che Wallace avrebbe descritto con una nota a piè di pagina di tre pagine, l’attore perse completamente il controllo.

Con una furia improvvisa — ecco, quella sensazione che stava cercando da settimane nel metodo Stanislavskij — gridò a pieni polmoni. Un urlo gutturale, sordo, che riempì lo spazio piccolo della cucina in un modo sorprendentemente imponente. Il vasetto, che fino a quel momento aveva tenuto come fosse un artefatto archeologico, fu scagliato contro il muro con una forza sproporzionata.

Il rumore dell’impatto fu quasi comico: un POP seguito da un suono molle e umido, come se il muro avesse appena vomitato uno yogurt greco a 0% grassi. Il contenuto denso, bianco e un po’ grumoso, si sparse con una lentezza inesorabile, quasi a voler godere della sua nuova libertà, e — come in un film al rallentatore — cadde direttamente addosso a Arturo, che dormiva ancora, totalmente ignaro di tutto.

Il gatto si svegliò di colpo, con uno scatto quasi epilettico, cercando di scrollarsi di dosso la bianca coltre di yogurt che lo aveva ricoperto. Era come vedere una scena tagliata da un film di David Lynch, in cui il simbolismo era troppo denso anche per il pubblico. Arturo si voltò verso l’attore coi baffi, ancora annichilito dal proprio scatto di rabbia, e lo fissò con uno sguardo che trasmetteva una sola cosa: Disprezzo totale.

E mentre lo yogurt colava lentamente sul divano, macchiando anche l’ultimo libro giallo di Walter Veltroni — che, alla fine dei conti, avrebbe potuto essere la parte più interessante della sua giornata — l’attore coi baffi rimase lì, a fissare il disastro che aveva creato, chiedendosi se forse, solo forse, quel vasetto di yogurt avesse vinto una battaglia che lui non era mai davvero pronto a combattere.

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