Il tandem di Paolo

Tedjo Edizioni Inutili
3 min read1 day ago

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Paolo aveva sempre avuto una certa inquietudine, un nervosismo che non riusciva a spiegare, un tarlo che lo divorava lentamente da dentro. Forse era dovuto a quella monotonia che lo circondava, fatta di pomeriggi lunghi e asfissianti, trascorsi a fissare intensamente, con il suo tipico sguardo vacuo, la gente che andava e veniva sotto il portico del bar. L’unica cosa che gli dava una parvenza di scopo, di azione, era quella bicicletta tandem che Omero Antigozzi gli aveva regalato qualche mese prima, dicendo con il suo solito tono al vetriollo: “Così almeno fai qualcosa, Paolo.”

Omero era uno di quei tipi che sembravano avere una spiegazione per tutto quello per cui nessuno aveva una spiegazione. Anni addietro era stato anche lui pieno di aspettative, un uomo che parlava di politica, di filosofia, di musica caraibica, che citava a cazzo autori francesi e tedeschi che non esistevano con la facilità di un conduttore del TG1. Ma ormai Omero non era più lo stesso; si era ridotto a un uomo curvo, afflitto da disillusioni inguaribili, che passava la maggior parte del tempo a fare battute amare e a magiare albicocche disidratate. Tuttavia, si era affezionato a Paolo e lo portava sempre con sé nelle sue lunghe pedalate in tandem.

Quel giorno, il sole batteva impietoso e l’asfalto sembrava sciogliersi come uno yogurt scaduto. Paolo e Omero pedalavano insieme, ma c’era qualcosa di impercettibilmente diverso. Omero non sembrava attento, ogni tanto lanciava uno sguardo distratto alle auto che sfrecciavano, aveva una strana espressione di distanza dalle cose. Paolo, per quanto si sforzasse di non dare troppo peso a quella sensazione, non poteva ignorare una sottile inquietudine che si insinuava in lui.

La strada davanti a loro sembrava interminabile, un nastro nero che si allungava tra palazzi e muri grigi, eppure Paolo continuava a spingere sui pedali, cercando di trovare un ritmo. A un certo punto, sentì uno strano scatto, come se qualcosa fosse andato storto. Il tandem sobbalzò leggermente, e Paolo si voltò indietro appena in tempo per vedere Omero che, con un movimento tanto grottesco quanto lento, scivolava dalla sella.

Non fu una caduta normale, ma piuttosto l’ accascìo di un sacco vuoto, un corpo che non opponeva resistenza. E poi sparì, inghiottito da un tombino parzialmente aperto, come se la terra stessa lo avesse reclamato.

Paolo frenò di colpo, con una sensazione di vuoto che gli riempiva il petto. Guardò il tombino. Non poteva vedere molto, solo il nero più nero. In un altro contesto, forse avrebbe riso della situazione assurda. Ma lì, in quel momento, sentì una sorta di disperazione. Omero era sparito, e lui era solo.

Si guardò attorno, sperando che qualcuno avesse visto, che qualcuno potesse aiutarlo. Ma la strada era deserta. Il silenzio era rotto solo dal ronzio distante delle macchine e da qualche passo lontano.

“Cosa faccio adesso?” pensò Paolo, stringendo il manubrio con le mani sudate. E poi, quasi senza riflettere, mise un piede sul pedale. Doveva continuare. Non poteva restare lì. Iniziò a pedalare da solo, il corpo proteso in avanti come per cercare di bilanciare il peso che non c’era più.

La fatica lo travolse presto. Pedalare in tandem da solo era assurdo, stupido. Ma non poteva fermarsi. Sentiva come se la sua intera esistenza dipendesse dal continuare a muoversi, dal non lasciarsi fermare da quel vuoto improvviso. Ogni pedalata era più faticosa dell’altra, ogni respiro più corto. Ma Paolo, con il viso contratto, pedalava. Non importava più dove andava, se sarebbe mai arrivato da qualche parte.

Pedalava solo per non smettere di pedalare, e non si fermò mai più.

E così, da quel giorno, nessuno vide più Paolo.

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