Il senso perduto di Lele per le porte a soffietto
Nella singolare cosmogonia rozziana poche cose hanno più importanza delle porte a soffietto, che vengono osservate con disgusto, attenzione intermittente, preoccupazione crescente. La porta a soffietto rappresenta un mistero insondabile che in ragione della sua insondabilità eccita ciò che rimane della amigdala del Rozza, una amigdala di dimensioni smisurate, costantemente perso nelle nebbie della variante di Gibbons, quella della sella turcica dei primati superiori. In due distinte occasioni ha incontrato una porta a soffietto, la prima risale al periodo della sua piena adolescenza, un incontro alonato di oscure devianze sessuali che non ci pare opportuno riportare qui, ora (la banana che lo guardava insistentemente dalla vetrina di un ortofrutta di città alta, il kiwi che lo inseguì per un intero fine settimana nella primavera del 1982, il primo incontro con la sua prima fidanzata che decise di cambiare città, sesso e continente il giorno dopo), la seconda nel mese di giugno del 2016, ed è di quella volta che vogliamo parlare, senza applicare il possente maglio della censura, le persone devono sapere, senza distinzione di censo o razza, e, laddove possibile, non commettere gli stessi errori. Il 6 giugno 2016 Lele si era svegliato molto presto per i suoi standards, sovrapponibili a quelli di un sauropode del Giurassico inferiore, intorno alle 11.26 del mattino, e dopo aver consumato una colazione frugale, una banana capitozzata perché le punte lo impaurivano, una tazza di caffè solubile scaduto nella primavera di sette anni prima, e del latte di soia con vistose gore di muffa, si vestì per andare in banca, dopo reiterate telefonate da parte del direttore della filiale che chiedeva ulteriori approfondimenti su un bonifico di 2340 euro a favore di una ditta denominata Pussies Kingdom, Jamaica, New York, indossando quello che caratterizzava il suo abbigliamento estivo, nell’ordine 1) boxer in finto cashmere con carta da forno sui testicoli, soffriva di geloni epididimiali, tre canottiere di lana, due camicie da finto boscaiolo, un maglione girocollo da donna, un maglione a collo alto da bambino, un reggiseno a balconcino per i dolori intercostali che lo affliggevano dopo aver fatto jogging per 2 minuti tre settimane prima 2) giacca a vento gialla con toppe di vero coniglio, loden color merda senza una manica e 3) due paia di pantaloni da sci, un paio di pantaloni da vela rosa fucsia, un tuta da saldatore e una gonna plissettata vinta, barando, a tombola. In testa un colbacco con piuma gialla a destra. La giornata era fresca e non voleva rischiare colpi di freddo. Così vestito fece le scale in un balzo, atterrò sul barboncino colitico della signora Bagnoli, sua vicina di casa novantenne, lo rialzò appoggiandolo alla parete salutando la signora con calore eccessivo, e cominciò a cercare la sua macchina. Dopo tre ore di ricerca infruttuosa, non ricordava né il colore né il modello, nella sua teca cranica modestamente popolata cominciava a farsi strada il sospetto di non possedere una macchina, decise di andare a piedi, essendo la banca a 130 metri da casa sua e essendo la signora Bagnoli, quella del barboncino colitico, la madre del direttore della banca, che si chiamava Emerenziano, come il barboncino, e che dal cane aveva ereditato una intensa motilità intestinale, parossistica quando vedeva Lele. Arrivato alla banca cercò di aprire la porta al contrario per un paio di volte e dopo aver incastrato il colbacco davanti alla fotocellula riuscì ad entrare, dopo essersi acceso una sigaretta. Il direttore era alla sua scrivania, in fondo alla stanza, la testa collocata esattamente davanti ai testicoli del toro del quadro appeso alle sue spalle, aveva la stessa dimensione di quello destro: Lele stava per sedersi davanti a lui, che già lo fissava con occhi dilatati dalla congiuntivite nervosa che insieme alla colite lo perforavano quando vedeva Lele quando quest’ultimo si fermò, improvvisamente, facendo cadere la cenere della sigaretta sulla testa di una signora colombiana nana che lo precedeva: alla sua destra aveva visto una porta a soffietto, una enorme porta a soffietto bianca, che lo fissava minaccioso ondeggiando come una anaconda sui suoi cardini laschi. In pochi minuti vide tutta la sua vita passargli davanti, mentre la nana colombiana stava prendendo fuoco; le vacanze in campeggio, la sua elezione truccata a capo manipoli dei giovani esploratori, la volta in cui si rinchiuse in ascensore per cercare una larva di zanzara e venne poi liberato dai pompieri che lo picchiarono per sette ore di fila, la prima settimana bianca in cui si presentò per errore con una tavola da surf perché aveva letto male l’annuncio, tutto questo era lì, davanti a lui, un mosaico di azioni e pensieri composto come una pala d’altare su quella porta a soffietto bianca. Rimase fermo ancora per qualche minuto, le nocche delle mani erano bianche per la continua tensione muscolare che vi imprimeva, la nana colombiana era ormai un tizzone ardente, quando, improvvisamente, anni di PNL e di altre cazzate del tipo E’ TUTTO OK TU SEI A POSTO sono solo gli altri che sbagliano affiorarono alla luce, vennero spinte come un razzo dai suoi precordi e fu un attimo, il corpo si fece freccia di un arco tenuto non si da chi e si avventò con la furia primigenia di un berserker vichingo contro la porta a soffietto, prendendola a calci urlando fino a divellerla dai suoi cardini. La porta cadde a terra, dietro di essa apparve la segretaria del direttore vestita di un delizioso completo intimo malva, il direttore urlò dalla parte opposta della stanza e dopo aver afferrato un rotolo di carta igienica si precipitò in bagno che però era occupato risolvendosi quindi a defecare dietro una pianta di plastica a foglie lanceolate, Lele si accesa una seconda sigaretta e chiese alla segretaria in completo intimo color malva cosa usasse per le doppie punte.