Il Respiro del Pesce Palla

Tedjo Edizioni Inutili
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Era il giorno in cui Makoto incontrò per la prima volta il pesce palla, un giorno di vento leggero e cielo grigio come il nastro di una bambina che avesse una predilezione per i nastri grigi, che di solito non sono molto amati dalle bambine. Era seduto in una caffetteria nascosta non molto bene, se no non sarebbe stato in grado di trovarla, lungo la riva di un fiume, incastonato tra grattacieli che si levavano come giganti smemorati. Il mondo attorno a lui sembrava sospeso, come se avesse smesso di ruotare per un istante. Ed è in quell’interstizio, in quell’increspatura del tempo, che il pesce palla fece la sua comparsa.

Non era certo come se l’avesse visto arrivare. Un momento prima c’era solo lui, una tazza di caffè e una copia sgualcita di *Kafka sulla spiaggia*. E l’istante successivo, il pesce palla era lì, galleggiando in aria, proprio di fronte a lui. Il pesce sembrava sorridere, sebbene i pesci non abbiano labbra per sorridere, e lo fissava con due occhi neri e impenetrabili, profondi come l’oceano.

“Tu sei Makoto, giusto?” chiese il pesce con una voce profonda e sonora, una voce che sembrava risuonare da un pozzo senza fondo.

Makoto fissò la sua tazza di caffè, certo di avere sentito male, ma il pesce era ancora lì. Fluttuava a pochi centimetri dal suo viso, come sospeso da una forza invisibile. “Sì, sono io… credo,” rispose lui, con una voce che gli parve appartenere a qualcun altro.

“Perfetto. Ci sono storie che devono essere raccontate, e tu sarai il mio ascoltatore,” disse il pesce palla. “E forse, se ascolterai con attenzione, diventerai qualcosa di più.”

Il pesce si fermò, emise una sorta di bolla sospirante e iniziò a raccontare. Makoto si sentì trascinato in un altro mondo, uno fatto di sabbie mutevoli, ombre danzanti e suoni che ricordavano vagamente i battiti di un cuore lontano. Ogni parola del pesce sembrava aprire una porta, ma non c’erano stanze dall’altra parte, solo corridoi infiniti e scale che scendevano nel nulla.

Il racconto era vago e specifico al tempo stesso. Parlava di una città sommersa, dove ogni abitante era obbligato a portare con sé una clessidra piena d’acqua di mare, per ricordare il tempo che si stava consumando. Raccontava di un uomo che aveva scelto di sostituire il proprio cuore con una pietra, perché si diceva che così avrebbe potuto amare per sempre. E, infine, narrò di una porta nascosta, dietro la quale esisteva una biblioteca che conteneva ogni singolo pensiero mai pensato dagli abitanti di quella città.

“E come si chiama questa città?” chiese Makoto, quando il racconto parve giungere alla fine.

Il pesce palla lo fissò con uno sguardo così intenso che Makoto si sentì come risucchiato in un vortice. “La città non ha nome,” rispose infine il pesce. “E nemmeno tu. Non ancora.”

Poi, il pesce palla sparì, evaporando come una nube che si dissolve al sole. Ma il silenzio che lasciò dietro di sé era come un eco che rimbombava nella mente di Makoto.

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